“Un sospiro inaspettato”: intervista alla scrittrice Cristina Longo

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Si è tenuta venerdì scorso a Montalbano Jonico, la prima presentazione del libro: “Un sospiro inaspettato” della giornalista e scrittrice lucana Cristina Longo. A fare da scenario, le suggestive mura medievali della città.

Un incontro culturale ed inaugurale. Nel suo primo incontro con il pubblico, si inizia volutamente da Montalbano, in quanto città natale della scrittrice. L’itinerario di presentazione e promozione proseguirà per tutta l’estate, nei paesi limitrofi lucani, e per tutto l’anno, in altre città, arrivando a Napoli per concludersi a Roma, dove la casa editrice Europa Edizione ha sede. Inaugurale, soprattutto perché il libro è la prima fatica letteraria di Cristina Longo.

Il libro si pone nel genere letterario della narrativa, con commistioni di tipo filosofico-introspettivo derivanti dalla sua formazione filosofica universitaria.

E’ un racconto reale-surreale, di grande spessore umano e letterario, secondo l’identikit che ne fa la casa editrice, in cui l’autrice fa confluire ricordi, sensazioni, fantasie ed inquietudini, che ha vissuto realmente o immaginato di vivere.

E’ un’analisi del vivere umano proiettato alla ricerca dell’inaspettato. Un tuffo in 50 pagine di intense emozioni.

E’ un viaggio nel tormento esistenziale di una giovane donna, che si interroga sul senso del vivere, sulla difficoltà soffocante di trovare risposte, sul coraggio di trovare alla fine un inaspettato sospiro salvifico, che rincuora, che lascia uno spiraglio e dà speranza nel continuare l’avventura fantastica che è la vita.

Un testo fotografico-impressionista, per le immagini che sa costruire ed imprime nel lettore attraverso una scrittura, sciolta, genuina, spontanea e leale che diventa a tratti più complessa, più difficilmente penetrabile ed ermetica, seguendo e rispecchiando il flusso di coscienza della scrittrice. La forza del contenuto sta nel fatto che il lettore si identifica da subito, perché il mal di vivere dell’autrice è quello di tutti gli uomini. La sua grandezza sta proprio nella semplicità dell’intento.

Ad aprire l’incontro, patrocinato dall’amministrazione comunale, il primo cittadino Enzo De Vincenzis, nonché assessore alla cultura. Ospite relatrice della serata, l’ingegnere Edvige Cuccarese, autrice di diversi libri e curatrice della prefazione dell’opera.

A margine della presentazione abbiamo approfondito motivazioni e contenuto incontrando direttamente l’autrice.

-La prima domanda, che ogni lettore si pone, è sul perché e sulle motivazioni sottostanti alla scrittura di un autore. Nel caso specifico, Cosa spinge una giornalista abituata a scrivere degli altri, a prendere carta e penna e scrivere, questa volta dei propri pensieri?

Si in effetti c’è differenza tra l’essere giornalista e l’essere scrittrice. Una giornalista deve informare e raccontare cose altrui seguendo un codice deontologico, seguendo la verità, l’oggettività, l’estraneità ai fatti. Forse sono proprio queste conformità a cui il giornalista si deve attenere a dare slancio allo scrivere un libro che parli della propria visione del mondo, di se stessi, mettendo in primo piano la soggettività, l’introspezione, dove l’unico codice che si segue non è quello deontologico ma quello della propria filosofia di vita. E quindi una scrittura intesa come ali liberatrici del proprio io. Ciò che mi ha spinto a scrivere i miei pensieri è stata una sorta di vocazione. Non ho cercato l’ispirazione ma è questa che mi ha trovata. L’ispirazione non l’ho creata io di proposito ma è lei che mi ha scoperto come scrittrice. Una voglia di scrivere quasi morbosa che avevo già da bambina non per altro avevo il classico diario segreto chiuso col lucchetto. Una voglia smorzata in età adolescenziale così dal nulla. E che da 4 anni circa a questa parte si è fatta di nuovo presente. Il tutto sotto forma di una contemporaneità tra ciò che si sente con ciò che si vede e con ciò che si scrive. Uno scrivere per stessi, un effetto inebriante nel vedere i propri pensieri prendere forma con il nero sul bianco in qualsiasi luogo si è e con qualsiasi strumento per appuntarselo, e che riletti a distanza di mesi o di anni sono di forte impatto personale.

 

-Quando ha inciso la sua formazione filosofica universitaria. Quali concetti filosofici, possiamo rintracciare, a cui rimanda nel testo, pur senza mai teorizzarli?

La filosofia studiata ha influito tanto. Quello che studiamo ci forma, ci fa pesare, ci accultura. I pensieri scritti in questo libro non possono non prescindere da quello che ho appreso. Se non avessi studiato filosofia credo che non avrei scritto quello che ho scritto. Respirare tutto tenendo in considerazione costantemente le larghe visioni che si possono avere della vita ti fa rapportare con occhi molto oggettivi. E’ stato sicuramente in grande parte il pensiero dei grandi filosofi ad aprire la mente e fa scorgere una propria filosofia di vita quella del momento in sé e che io ho adesso racchiuso nel mio libro. Del momento in sé perché cosciente del continuo e possibile evolversi dei propri atteggiamenti e della propria morale. Il filosofo vero è quello che non vive mai di staticità del pensiero. I concetti filosofici accennati involontariamente rintracciabili nel testo a cui faccio rimando ma che poi rielaboro anche sotto forma della mia filosofia sono quello dell’immaginazione morale come  immedesimazione, il processo di sospensione dall’esistenza presente e propria ed entrare in una dimensione diversa dalla propria che può essere reale o immaginaria. Trascendere da se stessi ed entrare nei panni dell’altro, nelle diverse modalità di esistere. L’altro concetto è quello dell’uomo come essere ragionevole che può essere condivisibile o meno.. del tutto o a tratti. Nel racconto l’uomo ragionevole lo è poco o per nulla se relazionato alla natura umana come alto grado di esistenza. Il vero uomo che può degnarsi di elogiarsi di essere uomo non usa maschere, non usa doppi sensi. Ma questa visione dell’uomo nel racconto viene smentita perché la vita è sempre nella possibilità di vivere nel doppio senso … ora nella maschera ora nella pura limpidezza, o magari nella possibilità della contraddizione. Non c’è una perfetta linearità soprattutto per la morale e per la messa in pratica della propria morale. Non per questo siamo umani e non siamo macchine computerizzate. Poi c’è la relazione spazio-tempo, passato presente e futuro, che ha mille teorizzazioni ma che nel libro sviluppo con la mia posizione su di queste.

 

-Veniamo al punto focale. Cos’ è quel tanto agognato sospiro inaspettato a cui si tende per tutta l’opera e alla fine la scrittrice dice di aver trovato e che comunque si aspetta ancora di rivivere. In quel sospiro inaspettato sta tutto il senso della vita? Quel sospiro inaspettato equivale a trovare il segreto, diverso per ciascuno, per essere felice?

Il sospiro inaspettato nel libro è stato l’incubo dal quale parte il racconto. È stato il diventare come in realtà non si è pensato mai di diventare, è stato l’incontrare delle cose che ti hanno spiazzata, lo scoprire il sole nella notte, il risveglio finale nel quale non si sente ma si ascolta il cinguettio degli uccelli. Cose che non dipendono da te ma che ti accadono. Cose belle o brutte che ti fanno sentire viva. Viva anche nelle negatività. Inaspettato che è venuto a trovarti come quello della vocazione del libro. E poi ad un certo punto si invoca l’aspettarsi l’inaspettato: è un po’ come dire aspettare un qualcosa che si crede che non verrà mai ed invece quando meno te lo aspetti ecco che arriva. Nel racconto il sospiro è arrivato da solo, e poi si cerca perché all’ormai, alla rassegnazione non si può dare vigore se siamo umani e se per umano intendiamo vita di doppi sensi, di contraddizioni. Ecco la relatività che assume un senso solo con la relazionalità. Perché la filosofia per essere felici non è quella dell’ormai, della rassegnazione, del per sempre dei miti. Il senso della vita sta proprio nel sospiro inaspettato. Quante cose non dipendono da noi ma ci accadono. La vita come continua evoluzione del tempo e dello spazio interiore e non. Sulla via della felicità lascerei un punto interrogativo perché risposte assolute da filosofa non posso darle proprio perché la vera filosofia è quella che si rigenera continuamente, che va di pari passo ai tempi che si vivono. Che non dà certezze, il senso dell’assoluto. Quella che scopre l’altro per riscoprire sempre se stessa. Il desiderio dell’inaspettato come desiderio di apprendere dalle novità che inaspettatamente ti portano ad essere diversa. Da qui la monotonia, le certezze, lo scontato, la standardizzazione, i paradigmi, gli stereotipi, che sono per la filosofia del racconto quasi inumani, meccanici, deprimenti. Che imbalsamano  la vita.

 

-Non c’è libro senza dedica. La dedica rientra in una sfera più privata per l’autore. Se non a chi è dedicato, vorremmo sapere almeno a chi si rivolge. Ogni autore ha una musa ispiratrice, un interlocutore al quale rivolge il suo pensiero nel momento in cui scrive e al quale vorrebbe arrivassero in modo diretto le sue parole. Anche il suo lavoro non si esime da questo? A chi è ricolto?

Al genere umano che non si interroga e che crede negli stereotipi, che crede nel “per sempre”, affinché si spronino ad allargare i propri orizzonti ed a rapportarsi con occhi umani nel livello più alto dell’umanità trovato solo nel senso dell’umiltà.

A chi si sente pessimista affinché diventi più propensa a cercare il propositivo anche nelle sventure della vita, come possono essere la morte di un proprio caro. A chi non si sente uomo e bambino nello stesso tempo affinché intraprenda questo modo di essere.

A chi non crede all’utilità della filosofia come maestra di vita, come pezzo da aggiungere alla costruzione del proprio mosaico vitale.

A chi non crede che leggere un libro significhi leggere in sé stessi affinché ci sia una rivalutazione e relativizzazione del propria filosofia di vita.

 

Mariangela Di Sanzo

 

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